INTERVENTO DEL PROFESSOR ANTONIO ZOTTI AL CONVEGNO TENUTOSI IN FONDAZIONE AMBROSIANEUM IL 9 LUGLIO 2024
Fabio Pizzul:
Darei la parola ad Antonio Zotti, per capire, dal punto di vista di chi studia da anni le istituzioni europee, che momento stiamo attraversando e cosa cambia dopo questo passaggio elettorale.
Antonio Zotti:
Proprio perché sono tanti anni che osservo, mi appassiono a quest’oggetto di studio, che, detto tra noi, fra i nostri colleghi molto spesso viene inteso come un oggetto di osservazione abbastanza noioso rispetto ad altri. Io vi dirò qualcosa che spero voi abbiate la pazienza e la voglia di interpretare non soltanto come un tentativo di far la parte del “bastian contrario”; è qualcosa di cui sono profondamente convinto sia come risultato della mia osservazione sia anche con un intento prescrittivo e normativo su come sarebbe bene che il processo di integrazione proceda.
È stata usata un’espressione che molto spesso ricorre nei discorsi sull’Unione Europea, “il giusto percorso dell’integrazione europea”. Io sono persuaso che il processo di integrazione europeo è tanto più avanzato, sofisticato e tanto più prettamente politico, quanto meno ha un percorso giusto, predefinito.
Fino a poco tempo fa, fino a un decennio fa, il processo di integrazione europeo era predefinito verso sempre una maggiore unità e il concetto di una maggiore unità sostanzialmente veniva identificato con un trasferimento di poteri dai governi nazionali a delle istanze sovranazionali. Poi ci sono le difficoltà, il governo più euroscettico, c’è Brexit, ci sono i danesi che non vogliono entrare nell’unione monetaria, c’è De Gaulle negli anni ‘60 che non vuole fare entrare gli inglesi e così via. In fondo questi sono semplici deviazioni dal giusto percorso che porterà a…..
Non sarete ovviamente nuovi all’identificazione, ad esempio, di figure di riferimento nel discorso pubblico: Spinelli, l’idea federalista. Mantenere questa idealità è un intento assolutamente lodevole se qualcuno ci tiene e tuttavia il processo di integrazione politica, nella misura in cui noi vogliamo che sia un processo prettamente politico, non può essere predefinito. Non è un processo teleologico, che ha un fine predefinito. I processi politici non hanno fini predefiniti. La politica è fatta di opzioni che competono fra di loro.
A volte si compete con l’utilizzo della violenza, di conflitti. A volte si compete attraverso processi istituzionalizzati come il voto, l’influenza, la pressione. In questo senso, il profilo maggiormente positivo, pure in un contesto che chiaramente ci offre molti motivi di preoccupazione, è il fatto che il processo di integrazione europea, sta diventando davvero politico, davvero contendibile.
La salienza del processo di integrazione europeo nel dibattito politico e nel dibattito pubblico non è effettivamente mai stata così alta ed è così alta da quando c’è chi lo contesta apertamente, da quando la contestazione del processo di integrazione europeo non è più una questione limitata alle discussioni all’interno del consiglio dei ministri o in un contesto ancora meno istituzionalizzato che è il consiglio europeo, che fino al ‘79 non esisteva, dal ‘79 con il Trattato di Lisbona non era un’istituzione dell’Unione Europea: era una vecchia conferenza internazionale, i capi di governo che si incontrano e fanno le cose al di sopra del dibattito pubblico, al di sopra anche dei dibattiti parlamentari. Eppure, quelli erano gli anni appunto del cosiddetto “consenso silente” in cui erano tutti d’accordo con l’integrazione europea perché non se ne parlava: la bandiera, l’Erasmus, De Gasperi, Schuman.
Ora la contestazione, invece, ci dimostra l’essenza sempre più politica del processo di integrazione. La politica è l’allocazione autoritativa dei valori scarsi, cioè quando qualcosa non accontenta tutti, non c’è modo di accontentare tutti, c’è bisogno di politica: uno dice giallo e uno viola e bisogna confrontarsi. Non ce n’è abbastanza per tutti, non c’è una soluzione che accontenta tutti. Come si fa? Non si è d’accordo e bisogna trovare un modo per convivere senza essere d’accordo: questa è la politica. Se uno è interessato ad avere un’Unione Europea che sia davvero un ente politico, questa politicità dell’UE non può venire se non attraverso la contendibilità politica delle sue scelte. Questa non è soltanto la fola di un analista che ha il piccolo interesse a vedere se diventa politico o no, è solo la politicità del processo che fa si che alcune decisioni cruciali, quali, ad esempio, quali sono i termini ai quali si partecipa a un conflitto o, ancora a monte, quali sono i termini ai quali possiamo procurarci le risorse economiche ma anche politiche di scegliere se farlo o no si può condurre un conflitto, eventualmente anche definendo nuove regole del conflitto. La questione guerra-pace per l’UE, molto spesso, viene presentata in termini “o l’Unione Europea è per la pace e non fa la guerra o è uguale a tutti gli altri e fa la guerra”. L’UE, almeno dagli anni ’90, è impegnata in un lavoro, molto spesso passato assolutamente sotto il radar di dibattiti pubblici, di trasformazione anche degli stessi conflitti. L’UE è impegnata da 30 anni in missioni anche militari, molto spesso sono missioni che hanno una componente civile e una militare. L’UE non manda semplicemente i soldati a fare le cose, insieme ai soldati manda i magistrati, i funzionari delle anagrafi danesi, italiani, portoghesi che servono perché se un Paese è appena uscito da un conflitto e, ad esempio, dopo 2 anni fanno le elezioni serve supporto per come si fanno gli elenchi elettorali, come si informatizzano le cose, come si fa ad avere la polizia locale, i vigili urbani che riescono a evitare conflitti interetnici che possono avvenire perché c’è quello che sta pascolando le pecore nel posto che gli è stato assegnato che in realtà i suoi nonni che avevano un’altra identità etnica…L’UE, in altre parole, non è che nel momento in cui diventa politico perde il suo afflato a trasformare la realtà. La trasforma e, tuttavia, questa trasformazione non è fatta semplicemente attraverso l’adesione a un grande ideale, è fatta attraverso l’esercizio della politica. La politica è fatta appunto dei grandi orientamenti ma anche delle politiche: prendere risorse ad assegnarle al fine di raggiungere degli obiettivi che sono stati definiti sulla base di un confronto, molto spesso anche acceso, fra chi dice facciamo questa cosa, chi dice facciamo quest’altra e chi dice facciamo quest’altra ancora. In questo senso, nonostante l’obbligo morale che abbiamo di essere preoccupati per ciò che succede, non possiamo perdere di vista questo orizzonte di politicizzazione.
Una parola sulla questione della capacità di influenza dell’Italia nella distribuzione dei cosiddetti top jobs. Innanzitutto, c’è una questione che non riguarda purtroppo solo l’Italia però in Italia si vede in modo particolare, ovvero sulla qualità media del personale politico da poter presentare che non dà un’enorme varietà di opzioni, soprattutto attraverso tutto lo spettro. È la qualità media del personale politico che fa si che nel momento in cui bisogna fare proposte per dei nomi alti, sia più difficile, si è meno flessibili, si ha meno margine di trattativa. C’è anche da tener conto che ci sono delle circostanze favorevoli, ad esempio un nome enorme c’era, ossia Mario Draghi, ma per l’enormità del nome Mario Draghi lo si posiziona perché si è deciso di andare tutti in una direzione o altrimenti non c’è un semi-top job che gli si può assegnare, quindi è rimasto fuori.
Però ricordiamoci anche che un discorso del genere era stato fatto anche allo scorso giro di definizione delle posizioni di vertice. Ad esempio, nel dibattito attuale, sia a destra che a sinistra, ovviamente con strategie comunicative una opposta all’altra, si dice “non ci si può accontentare del commissario di peso che è un modo per indorare la pillola”. Stesso discorso fatto la volta scorsa. Tuttavia, se uno va a vedere, il commissario per gli affari economici accidenti se è un posto rilevante. Ora, tuttavia, vedete che anche il fatto stesso che noi, all’interno della sfera pubblica, del dibattitto pubblico italiano, stiamo discutendo la vola scorsa e questa volta ancora più di ciò, ci permette di vedere i segni del sempre citato mancante demos europeo in azione. Il fatto che questo sia parte del dibattito pubblico è già dimostrazione di demos, che non è piantare l’albero della rivoluzione come a fine XVIII secolo. Il demos è partecipare, ognuno con i suoi strumenti, con la quantità di tempo ed energie che può dedicare, al dibattito della cosa pubblica. Chiaramente il demos europeo difficilmente si manifesterà nei modi in cui si è manifestato nell’ultimo paio di secoli all’interno degli spazi nazionali. Rimane l’elemento del multilinguismo, delle diverse tradizioni politiche, delle diverse tradizioni culturali e però, proprio nella costruzione di un demos che non riproduce semplicemente il demos nazionale, sta la vera grande scommessa dell’integrazione europea. Che poi è il motivo per cui io tendo a non affezionarmi troppo al discorso federalista perché riporta al livello più grande la stessa strada ottocentesca della formazione di uno stato nazionale, semplicemente con l’autonomia…, ma quello già esiste. L’integrazione europea voleva essere qualcos’altro, voleva ridefinire le categorie e ridefinisce anche la categoria del demos. E noi stiamo vedendo, anno per anno, un esercizio di formazione di un dibattito pubblico sovra- trans-nazionale, internazionale, e tutte le cose insieme. Sovranazionale non sostituisce l’internazionale. Alla stessa maniera con cui, all’interno del funzionamento istituzionale, più potere al parlamento e alla commissione non è che arriva “a discapito di”. La rappresentazione delle istanze nazionali ci sarà sempre e non può, altrimenti l’UE diventa uno stato e non si parla più di UE. Per altro anche da un punto di vista proprio di dignità in quanto europei, significherà che non siamo riusciti a inventare niente di nuovo e abbiamo dovuto rifare la stessa cosa di Mazzini e così via. Quindi, bisogna prestare attenzione a vedere i segni positivi perché, nella sofisticazione dei processi politici e sociali europei, bisogna saperli individuare. Non si può aspettare sempre il grande momento entusiasmante proprio perché la politica europea è diventata una cosa da adulti, non di declaratorio (ci si dice “euroentusiasti” perché tanto arriva a poco costo, non significa niente e devo dirlo una volta ogni tanto).
L’altro grande elemento, l’altro grande sintomo della politicizzazione dell’UE è la tragedia del tempo. La politica europea non è più una politica che avviene, come per un po’ di tempo è accaduto, in una sfera atemporale in cui tutto seguiva semplicemente i piani, i calendari che si era data la stessa Unione Europea, quando prima le competenze erano tutte quante limitate alla costruzione del mercato unico, alla politica agricola: li è facile darsi dei tempi. Tuttavia, li siamo più nel campo dell’amministrazione; la politica è politica perché ha sempre dovuto fare in conti con il dramma dei fattori non controllabili, i tempi della decisione non li decidi tu.
Quindi, ad esempio, la questione della guerra, è questione eminentemente politica non solo per la cosa che ovviamente ci indigna della perdita di vite umane per un’azione violenta di qualcun altro, ma è politica perché arriva e tu non decidi i termini con cui affronti quella questione.
Pensate, ad esempio, alla circostanza di un governo francese che si trova a essere oggetto di una procedura di infrazione per deficit eccessivo e che al contempo era il principale promotore di un aumento del bilancio europeo per dotarsi di più risorse. Quella, adesso, è una questione spinosissima da gestire ma è quella la manifestazione che è un vero processo politico. Non si tratta più, come un tempo, di mettere da parte risorse e poi quelle saranno per i fondi per rifare il campanile o per comprare i trattori nuovi all’interno della PAC. Adesso bisogna farlo con il mondo che preme da fuori. Ci sono le elezioni americane e se poi c’è l’amministrazione Trump e non danno più le armi, chi dà le armi a questi qui? Non è detto che dobbiamo darle per forza ma dobbiamo fare i conti con le conseguenze di non dare più armi all’Ucraina e non ci sono strade giuste. La politica. Si decide di prendere una decisione e cercare di prevedere le conseguenze e pagarne le ulteriori conseguenze che verranno. Succede così, succede, ad esempio, con la questione dell’allargamento. È vero, mettiamo prima le cose bene in casa e poi allarghiamo. Ma anche qui, l’allargamento è diventato politico anch’esso. Quanto tempo possono stare li fuori l’Albania e la Macedonia ad aspettare prima che a qualcuno non venga in mente di dire “arrivano soldi sauditi e cinesi senza rotture di scatole dell’UE”. È già successo con la Serbia. Noi possiamo dal nostro punto di vista dire “ah no ma col diritto di veto non si può andare avanti, come facciamo”. Non sto dicendo che allora li fai entrare dentro e quella è la soluzione, ma è una decisione politica. Non si può più andare semplicemente con una razionalità puramente analitica, pulita, non fatta di tragedia nel decidere se farli entrare o no. La politica è fatta di trade-off. Se faccio qualcosa non posso fare qualcos’altro. Se prendo una decisione mi sono privato di altre opzioni. La stessa cosa succede con l’immigrazione.
Quindi, concludendo vi dico: l’UE in crisi ma è una crisi di crescita, di formazione e come tutte le crisi di crescita e formazione non significa che poi c’è una bella età serena. È una crisi di crescita e formazione che può finire malissimo. E però nella misura in cui c’era chi e c’è stato chi ha voluto che questo processo diventasse politico era una crisi inevitabile.
Fabio Pizzul:
Grazie anche a Zotti per queste riflessioni che chiamano in causa la necessità che la politica prenda sul serio l’Europa tanto quanto l’Europa deve prendere sul serio la politica perché giustamente si parla di decisioni e l’impressione è che, per anni, effettivamente, ci si sia affidati ad automatismi che, poi, erano definiti, con gergo giornalistico e politichese, tecnocratici e che non tenevano conto della necessità di fare dei passaggi che cambiassero realmente la modalità con cui diversi Paesi stavano in Europa.