Agostino racconta Ambrogio: spettacolo in prima assoluta nel cuore di Milano
Adriano Bassi e Simone Tansini – Parole e Musica
Quando la parola stampata si separa dalla carta per diventare racconto teatrale, musicale, vivo e pulsante, la più grande sfida, per chi si carica di questa responsabilità, è quella di riuscire a mantenere il più possibile integra l’anima del testo originario.
La vita di Ambrogio narrata da Agostino, di Marco Garzonio, è un lavoro profondo e delicato in cui la vicenda umana, intima ed introspettiva, si fonde a quella storica che ha riverberato in tutto il bacino del mediterraneo, culla religiosa e culturale del tempo. Il passaggio più importante per la realizzazione di questa pièce è stato quindi quello di riuscire a conservare questo spirito.
Ambrogio una luce da Milano è una narrazione lontana dall’agiografia, è il ricordo di un colosso della cristianità vissuto attraverso le memorie, le impressioni e le analisi di chi è stato al suo fianco, lasciandosi attraversare e modificare dalla forza dirompente e rivoluzionaria di Ambrogio. Simone Tansini, autore della pièce, ha impostato lo spettacolo in forma di dialogo interiore – che potremmo definire monologo polivocale- tra Agostino e le voci che hanno squarciato il tempo, lo spazio e la coscienza, portandogli la notizia della morte dell’amato vescovo di Milano.
Per Agostino narrare la storia di Ambrogio significa raccontare di sé, della propria vita, della propria conversione, dei dubbi, delle incertezze, degli sbagli e delle trasformazioni. La grandezza del vescovo di Milano viene rappresentata attraverso la sua storia, ma soprattutto attraverso l’impatto che essa ha avuto sulle vite degli altri e di come questo percorso di cambiamento sia proseguito anche dopo la sua morte.
Le genti di Ippona trattengono il fiato con Agostino e sentono la necessità di commuoversi con lui, di vivere un lutto personale come se appartenesse all’intera comunità. Sottesa alla narrazione si avverte una necessità di scoperta dell’Ambrogio uomo, consularis e faro della fede, una tensione emotiva che diventa dialogo tra Agostino e il pubblico, perché conoscere Ambrogio significa scoprire e riscoprire se stessi.
Ambrogio una luce da Milano non parla attraverso un solo linguaggio, poiché il dialogo interiore di Agostino si trasforma in musica. In una veste che si affranca dall’idea di semplice accompagnamento, acquisendo il ruolo di macchia sonora che punteggia il racconto espandendone i confini sensoriali attraverso interventi a sostegno della parola e momenti solistici. Proprio in quest’ottica di amplificazione emotiva del linguaggio musicale il M. Adriano Bassi ha composto i brani presenti nello spettacolo, dialogando con l’autore dei testi ed intessendo un sapiente canto e controcanto delle azioni narrate, lasciandosi ispirare da atmosfere musicali che diventano veri e propri affreschi.
Ad impreziosire ulteriormente il tessuto di questo spettacolo i cantori della Schola Gregoriana Laudensis, diretti da Giovanni Bianchi, che eleveranno la parola nella sua dimensione più mistica.
Ambrogio una luce da Milano diventa così una pièce di più linguaggi che si intrecciano, esaltando e ricreando quelle sensazioni suscitate dal testo primigenio di Marco Garzonio. La storia di Ambrogio, attraverso la sua narrazione, trova così nuova vita, nuova forza, nuova luce.
Marco Garzonio – Autore del libro “La vita di Ambrogio narrata da Agostino”, da cui la pièce è tratta.
Ambrogio: «Omnia Christus est nobis! Cristo è tutto per noi!» [1]
Il seme e i seminatori: ieri, oggi e nel tempo a venire
di Marco Garzonio
Nella notte tra il 24 e il 25 aprile del 387 d.C. a Milano succede qualcosa di speciale. È la notte di Pasqua[2]. Il vescovo Ambrogio, da 13 anni pastore della città, battezza i catecumeni. Lui stesso li ha preparati: ha impegnato la Settimana Santa a spiegare i significati profondi, radici antiche, la conversione, il cambio di vita imposto dal Sacramento che li renderà discepoli di Cristo. Ha letto loro e commentato i primi versetti della Bibbia. Sono un tema a lui caro i “sei giorni della Creazione”. Hexaemeron, titolo appunto di uno dei libri più famosi del Santo, porta i segni e l’atmosfera di quella notte speciale. Messo al mondo il mondo «il Signore si riposò nell’intimo dell’uomo, si riposò nella sua mente e nel suo pensiero: infatti aveva creato l’uomo dotato di ragione, capace di imitarlo», dice Ambrogio. E lega l’atto primigenio, l’inizio di tutto, a quel che verrà dopo, al culmine della storia, al compimento dell’annuncio di salvezza di cui ancora proprio in quella notte di Pasqua del 387 d. C. si fa memoria. Creazione, passione, morte, Resurrezione sono l’asse portante dell’esistenza secondo il Patrono della città, l’anima mundi, il senso della vita, l’annuncio che l’uomo può cadere ma sa anche rialzarsi, può insomma continuare a sperare per sé e per gli altri: sempre, in ogni situazione. La creatura deve però saper accogliere il riposo di Dio e della Croce «nella sua mente e nel suo pensiero», nel suo «corpo umano», al fondo del suo cuore.
La Pasqua speciale di allora si celebra nell’attuale piazza del Duomo. Sotto quello che oggi diciamo “il sagrato” son pietre vive le vestigia antiche che si possono tuttora ammirare. Ambrogio ha voluto che il Battistero avesse forma ottagonale. Ha spiegato che la forma ha uno specifico significato, non è guizzo estetico. Dopo i sei giorni della Creazione e il settimo in cui Dio riposa viene l’ottavo giorno, il giorno della Resurrezione. Appunto, la notte di Pasqua, quando la luce sconfigge le tenebre. Dice la primitiva liturgia: Mors et vita / duello conflixere mirando. / Dux vitae, mortuus, / regnat vivus. Nell’edificio che ha al centro la fonte battesimale sono appena giunti i cumpetentes. Si chiamano così coloro che hanno insieme hanno espresso la richiesta (la fede è conversione individuale e comunione con l’altro) di vivere e rendere visibile anche nel corpo e nei gesti la metanoia, la trasformazione, il cambio di mentalità, dismettere i panni e il modo di vedere dell’uomo vecchio, tutto ciò che son stati sino a lì e diventare l’uomo nuovo, la nuova creatura che ri-nasce con Cristo. Come segno evidente e corale del rivolgimento interiore, del passaggio esistenziale verso il rifiorire di una vita nuova hanno lasciato la Basilica Hiemalis, ovvero Santa Maria Maggiore, l’edificio collocato a quei tempi là dove oggi campeggia l’abside del Duomo. A conclusione del rito del battesimo è meta l’altra basilica, quella “aestiva”, Santa Tecla, il Duomo di allora, chiamato da Ambrogio “Basilica nova”. Ma devono prima spogliarsi del vecchio Io, passare attraverso l’acqua che evoca il Giordano idealmente, nel nome di colui che sul fiume battezzava: Battistero di San Giovanni alle Fonti si chiamava la struttura oggi sotto il sagrato. Solo lavati e purificati potranno assumere la veste bianca dell’uomo nuovo rigenerato alla fede. Li accoglierà la chiesa edificata quasi a ridosso dell’area su cui sorgono attualmente i portici settentrionali dell’odierna Galleria, basilica primitiva dedicata alla Santa che Ambrogio tiene in gran conto e venerazione: appunto, Tecla, discepola di Paolo, originaria di Iconio, oggi Konya, città della Turchia, sull’altopiano centrale dell’Anatolia. È una delle figure femminili di spicco del martirologio ambrosiano e di tutto l’Oriente Cristiano, meno popolare nella Chiesa di Roma.
Tra i battezzandi che il vescovo Ambrogio ha preparato alla nuova avventura vitale c’è un uomo fuori del comune, quanto è speciale l’evento che stiamo rievocando. Per lui la notte di Pasqua del 387 d.C. è l’esito di un lungo, tormentato percorso: si chiama Agostino. È in processione e veste gli abiti dell’umile richiedente, come tutti gli altri. Sino a pochi mesi prima era un personaggio autorevole tra i componenti d’una certa influenza presso la corte imperiale, un uomo al culmine di una carriera rapida e brillante, professore di retorica, intellettuale ambito, conteso, ricercato. La posizione che occupava aveva fatto immaginare alla madre Monica anche un bel matrimonio che rafforzasse la sua posizione nei ranghi dall’aristocrazia e del potere. Avrebbe così finalmente lasciato la donna con la quale conviveva more uxorio da anni, che gli aveva dato un figlio e che lo aveva seguito sino a Milano, ma che alla madre non piaceva sin dai tempi dell’Africa.
A Milano, una delle quattro capitali dell’Impero, Agostino è stato inviato per adempiere ad una “missione” particolare, molto delicata, di tutt’altro genere rispetto al vertice di religiosità in cui s’è calato nella notte tra il 24 e il 25 aprile. L’incarico gli era stato prospettato dal Praefectus Urbi Simmaco in persona, al quale erano giunti gli echi di quanto fosse promettente quel giovane professore e di come invece fosse sprecato nel fare scuola a giovani patrizi con scarsi interessi per la filosofia e ancor minore voglia di studiare. Ma perché a una branca influente del potere e dell’aristocrazia capitolina sembravano tornar utili intelligenza e voglia d’affermazione d’un professore che veniva da una provincia dell’Impero? La raffinata, antica, diplomatica arte della politica puntava a perseguire i propri obiettivi senza prender di punta gli avversari, evitando di dar troppo nell’occhio e di contrapporsi apertamente a personaggi di spicco. L’impresa conveniva quindi a chi aveva concepito il piano e allo stesso Agostino. Ambrogio era diventato un “caso” per la Roma classica, degli antichi dei, oltreché per la corte imperiale. Dava fastidio la fama crescente del vescovo di Milano, come uomo di Dio e come autorità spirituale influente, non solo nella sua città; di lui avevano alta considerazione, tanto da consultarlo prima di importanti decisioni, vescovi di questa parte del mondo, l’Occidente, ma anche del vicino Oriente, dell’Africa. La stessa corte imperiale aveva soggezione di quel Pastore; per le origini patrizie e per esser stato il più alto magistrato dell’Impero nell’Italia settentrionale con il governo delle province dell’Emilia e della Liguria, con sede a Milano prima di venir fatto vescovo, avrebbe dovuto – secondo loro, ovviamente – compiacere il potere; invece si era messo contro governanti e militari per difendere le basiliche cattoliche dai soprusi delle autorità che cavalcavano le pretese degli ariani in nome dell’antico e redditizio divide et impera. Sostenuto dal popolo, strettosi attorni a lui, era riuscito a difendere gli spazi sacri dei cattolici, non avendo paura di asserragliarsi coi fedeli in chiesa e sostenendo le fatiche e i rischi di un redde rationem. Alle armi che cingevano d’assedio le chiese Ambrogio oppose la poesia, la musica, il canto corale. Saran detti poi “Inni ambrosiani” quei versi. E l’aveva spuntata con i suoi: Aeterne rerum conditor, Deus creator omnium, Iam surgit hora tertia, Intende qui regis Israel.
Nei momenti di più intensa, intima preparazione al Battesimo v’è da credere che Agostino abbia ripensato alla potenza trasformatrice del cuore e della volontà contenuta in quelle musiche e pronta a sprigionarsi. Era capitato a lui stesso di ascoltare melodie e parole l’anno prima di quella notte di Pasqua. Leggiamo oggi nelle Confessioni (IX,7,15): «Noi stessi, sebbene freddi ancora del calore del tuo spirito, ci sentivamo tuttavia eccitati dall’ansia attonita della città. Fu allora, che s’incominciò a cantare inni e salmi secondo l’uso delle regioni orientali, per evitare che il popolo deperisse nella noia e nella mestizia». Le voci e i suoni probabilmente gli echeggiano ancora nella mente quando si avvicina al fonte battesimale per morire a sé stesso e rinascere uomo nuovo. Quella che assumerà la portata di una crisi esistenziale incomincia a prendere forma in quartine di dimetri giambici. Sulle vibrazioni che emanano da tale spartito vacilla sin nelle fondamenta l’edificio di sogni di successo terreno che lo hanno portato a Milano.
Già, perché ad Agostino era stato affidato un mandato in grado di corrispondere alle ambizioni più allettanti di uomo emergente, di sicuro avvenire mondano. Secondo Simmaco con la sua testa fine, le capacità argomentative l’ottimo retore qual era, la ricca cultura avrebbe dovuto far da contraltare a quel vescovo Ambrogio che invece di tener vivi i canoni della romanità in cui era cresciuto stava impegnando tutto sé stesso per innestare il vangelo delle Beatitudini sul ceppo della tradizione dei Padri. Difendendo l’autonomia della Chiesa rispetto agli orientamenti e alle decisioni della casa imperiale minava la sopravvivenza della “religione romana”, cioè la pratica dei culti pagani che di fatto riconoscevano all’Imperatore un ruolo divino. Da Milano il vescovo Ambrogio aveva aiutato i senatori cristiani nell’ottenere che nel luogo simbolo del potere statale, il Senato appunto, venisse rimosso l’altare della Vittoria; onorando questo simulacro dell’esercizio del comando militare e civile, si sarebbe continuato a rendere omaggio a un pontifex che col Cristianesimo non aveva più ragione d’esistere. La svolta nei rapporti tra Chiesa e Stato, tra il vescovo Ambrogio e Simmaco che del conservatorismo statale era alto rappresentante, consumatasi nell’anno 382, come brace ha continuato a tener alta la tensione e a scaldare gli animi, a cercar occasioni per restaurazioni e rivalse. Di questa Agostino si trova ad essere inconsapevole attore nel momento in cui con piena soddisfazione per l’incarico ricevuto prende la via di Milano.
Mentre procede con passo lento Agostino ripercorre in un lampo il cammino che lo ha portato in processione a chiedere il Battesimo. È stata solo un’illusione, dunque, che figurassero tra le sue mete agognate successo mondano, conquiste terrene, prebende del potere. Ha superato prove, ottenuto affermazioni, riscosso riconoscimenti pubblici alla corte, negli ambienti più influenti civili e militari, ma soltanto con una porzione di sé, con la parte intellettuale, l’istinto alla supremazia. Però quanto più prestigiosi eran stati i risultati conseguiti, tanto maggiore s’era sviluppata in lui inquietudine, insoddisfazione, disagio, rifiuto. Qualche sospetto è incominciato a venirgli quando ha dovuto prendere atto che l’Ambrogio della realtà era un po’ diverso da quello che gli avevano prospettato a Roma. Prende ad ascoltare qualche omelia del vescovo. Ne rimane colpito. È un intellettuale, un uomo di cultura, sa apprezzare riferimenti agli antichi testi e un pensiero che da essi si sviluppa. Ma non sono le storie dei Patriarchi e le massime dei Proverbi, di cui Ambrogio è sapiente commentatore a turbarlo. Domande e inquietudini si affacciano quando Agostino constata che «il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio Vescovo». La testimonianza personale, il giocarsi in prima persona vale più del miglior catechismo e dell’orazione ben impostata. Le parole del vescovo corrispondono in pieno ai richiami alla prossimità cui il pastore adempie nei fatti, nella battaglia quotidiana che lo prende in favore di poveri, vittime dell’usura, vedove, orfani, nei richiami ai ricchi e ai potenti perché contengano le proprie pretese, lo sfruttamento di chi lavora, che desistano dal cercar d’essere sempre più ricchi e dispotici.
Il confronto naturale tra l’universo d’umanità e di fede di cui Ambrogio è al centro e l’ambiente in cui da Roma è stato calato manda in crisi Agostino. Il professore di retorica rivolge verso il proprio interno la ricerca che ha sperimentato saper fare in modo efficace sui testi. Una sosta, un po’ di silenzio, l’ascolto da uditore e scettico delle parole di Ambrogio, il camminare per la città, il ripensare a ciò che ha visto e udito gli fanno sperimentare una voragine tra le aspettative di successo a portata di mano e il senso profondo di quello che stava accadendo dentro di lui e nei subbugli del tempo che viveva. Agostino si ritrova con l’animo che a un certo punto sta rischiando di andare in pezzi mentre cerca qualcosa che plachi le sue ansie, rafforzi le sicurezze sempre meno stabili, fermi i sudori freddi alla schiena, il respiro affannoso, l’avvicinarsi delle crisi di panico.
Agostino cerca di venire a patti con sé stesso, sbircia le mosse di Ambrogio o lo ascolta da lontano; lo cerca e lo sfugge, lo cerca di nuovo con crescente desiderio sforzandosi di capire il segreto di quell’uomo schivo, saldo, autentico. Attratto dall’irresistibile forza del vescovo la sua fortuna – come scriverà in tempi successivi – è di riuscire a venire a capo di sé stesso grazie alla luce di vita, oltreché di fede e di sapere, che Ambrogio sprigiona. Sì, proprio quel vescovo che egli è venuto a Milano per rimettere al suo posto, confinandone l’influenza all’interno delle basiliche, è diventato quello che gli sta indicando la vera strada da percorrere.
Due grandi figure si incontrano sulla soglia del Sepolcro vuoto. Il cero acceso la notte della Pasqua del 387 d. C. illumina una sorta di passaggio di testimone. Nel segno del Mistero di morte e Resurrezione si celebra uno dei riti di passaggio che fanno la storia dei protagonisti e dell’umanità intera.
Ambrogio ha una cinquantina d’anni, di famiglia patrizia originaria di Roma con ascendenze greche (il nome viene da “ambrosia”, il cibo deli dei; la nonna si chiamava Sotere, che vuol dire “salvezza”), è nato a Treviri – dove il padre copriva un alto incarico al seguito dell’Imperatore – s’è formato a Roma nella casa avita tra il Monte Capitolino e l’Isola Tiberina, ha preso confidenza con i classici latici e greci e con il cristianesimo cresciuto e affermatosi tra gli strati alti della popolazione anche grazie al lavoro paziente delle donne dell’aristocrazia; è all’opera di esse che si deve il diffondersi e il radicarsi del Nuovo Annuncio di Salvezza nella Capitale. Agostino ha vent’anni di meno. Viene dal Nord Africa, un immigrato direbbe qualcuno oggi, con la differenza rispetto ai tempi presenti che Roma per scelta politica dava la cittadinanza ai popoli che conquistava, ritenendo riconoscimento e integrazione la via migliore perché fossero fedeli e dessero il loro apporto. È originario di Tagaste, l’odierna Souk-Ahras in Algeria; suo padre è pagano, mentre la madre è di fede cristiana. Ha attraversato diverse esperienze religiose e filosofiche; ha avvertito l’angustia di prospettive dell’ambiente d’origine; non appena gli si è presentata l’opportunità di cercar fortuna a Roma non s’è lasciata sfuggire l’occasione. Nella capitale è giunto con una compagna e col figlio da lei avuto, Adeodato. Giusto il tempo di far conoscere qualità e voglia d’emergere ed ecco l’avventura verso Milano, col figlio quasi adolescente e la compagna. Di lei però non resta traccia nella storia, neanche il nome. La misoginia della Chiesa, unita forse ai sensi di colpa dell’uomo Agostino non le hanno reso giustizia.
Ambrogio e Agostino insieme camminano sul crinale tra due epoche; il fonte battesimale riassume la morte di una e l’affacciarsi della successiva; la prima è piena di eventi, la seconda deve ancora rivelarsi in tutte le sue complessità. Nella seconda metà del IV secolo il mondo antico è al collasso, l’impero si sgretola tra congiure di palazzo, guerre che seminano morte e che prosciugano le casse statali; inflazione, carestie, disastri economici, invasioni di popoli che sono cresciuti e cercano terre, ricchezza, identità. Il nuovo che pur c’è e preme, annunciato da scontri e contraddizioni, da trasformazioni concrete stenta ad affermarsi, non riesce a muoversi attraverso un percorso lineare. Eppure avanza, inesorabile. È un periodo di transizione anche violenta, ma sarebbe errato soffermarsi solo su parti oscure e rovine. Mentre i romani a poco a poco dovranno abbandonare la Britannia, scenderanno a Sud Alemanni, Burgundi, Franchi, Svevi, Vandali, i Visigoti arriveranno a prendere Roma nel 410, una dozzina d’anni dopo la morte di Ambrogio. Il vescovo però, intanto, aveva fatto in tempo ad essere tra i protagonisti d’una stagione in cui nei monasteri si copiano testi della classicità; vengono composti il Talmud Palestinese o gerosolomitano e il Talmud Babilonese; in Oriente sono punti di riferimento Padri come Basilio, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo; Ambrogio fa arrivare a Milano i codici delle loro opere da Costantinopoli, mentre a Betlemme San Gerolamo lavora alla Vulgata.
I libri son vita nella città. Quando Agostino arriva a Milano, Ambrogio ha già tracciato, lui vescovo, il disegno urbanistico del centro urbano. Che è poi quello odierno. Puntando sull’incrocio tra cardo e decumano, dove oggi sorge l’Ambrosiana, come con un compasso Ambrogio disegna un cerchio, l’attuale cerchia dei Navigli. A metà delle assi portanti della città romana colloca quattro grandi basiliche; in senso orario: la Basilica Apostolorum, l’attuale San Nazaro a metà della via colonnata, che provenendo da Roma introduceva in città; la Basilica Martyrum o Basilica Nova (l’attuale Sant’Ambrogio); la Basilica Virginum (San Simpliciano); la Basilica del Salvatore, o San Dionigi (sotto il Planetario ai Giardini pubblici).
Senza indebite forzature sulla storia, è indubbio l’aiuto che viene a comprensione del presente e immaginazione d’un futuro dalla conoscenza delle componenti controverse e trascurate del passato. Nello scorcio di secolo IV ribolle il crogiolo del processo culturale, sociale, politico, religioso su cui verrà a modellarsi l’identità Occidentale. Accanto alla koinè mediterranea è destinata a prender forma una koinè europea che è ancora in piena continua definizione, come a noi mostrano gli avvenimenti degli anni seguiti al crollo del muro di Berlino culminati con l’aggressione Russa all’Ucraina. Ne La vita di Ambrogio narrata da Agostino ho cercato di immaginare una tappa d’un processo di presa di coscienza attraverso la memoria del vescovo Ambrogio che Agostino s’era portato in Africa tra la sua gente, stabilendo un ponte ideale tra due continenti che non è pensabile separino i loro destini. Il battesimo di conversione, storicamente impartito da Ambrogio ad Agostino, è il nucleo energetico delle grandi trasformazioni delle persone e delle epoche. Trarre dal romanzo una pièce teatral-musicale, come felicemente han fatto Adriano Bassi e Simone Tensini, raccogliere intorno ad essa donne e uomini di oggi che partecipano empaticamente alle sofferenze di stragi e distruzioni provocate dalle guerre, dalle ingiustizie, dalle violenze in particolare a donne e bambini, da un Mediterraneo ridotto a cimitero di sogni e di persone fan sentire la sete dell’acqua di vita eterna che sgorga dal fonte battesimale senza interruzione. Le rappresentazioni drammaturgiche sono beni preziosi, strumenti di presa di coscienza delle persone e delle comunità.
[1] L’espressione è di Sant’Ambrogio. Il quale aggiunge: «Non solo è tutto adesso, ma è il principio di tutto, dall’inizio, anche della creazione». Semen omnium Christus, «Cristo è il seme di tutte le cose».
[2] Occorre partire proprio dalla notte di Pasqua del 387 d. C., quando il vescovo Ambrogio battezzò il catecumeno Agostino, se ci si vuol fare un’idea del perché egli sia stato “una luce” per i suoi contemporanei e abbia continuato a rappresentare – e ancora saldamente rappresenta – imprescindibile punto di riferimento per la Chiesa Ambrosiana (e quella universale), la civitas, la realtà in cui le persone, le culture, le fedi vivono e si incontrano, esprimono ciascuna la necessità di realizzarsi e insieme il bisogno di contemperare la libertà di ognuno, individuo o comunità, con il perseguimento del bene comune. Agostino raccolse le scintille del cero pasquale condiviso in quella notte, ne fece tesoro, le trasformò con sensibilità, cultura, spiritualità proprie in altrettanti semi di umanità, di pensiero, di dialogo interiore, di colloquio con Dio, di ricerca d’incontri e di scambi con gli altri. Sulla base di studi, verifiche storiche, approfondimenti anche psicologici e rielaborazione personale delle figure dei due grandi Padri della Chiesa e del loro incontro ancor oggi generativo di energia psichica, scandagli intimi, idee, speranze, chi qui scrive ha costruito il romanzo La vita di Ambrogio narrata da Agostino. Ho immaginato, cioè, il racconto di una presa di coscienza individuale che si fa memoria collettiva. Agostino è raggiunto ad Ippona, nella sua Africa dove dopo Milano aveva fatto ritorno, dalla notizia della morte di Ambrogio nel 397 – anche qui sorprendentemente c’entra il periodo Pasquale: il vescovo di Milano morì il Venerdì Santo di quell’anno! – e coglie l’occasione per riandare alla fonte del cambiamento totale di vita da lui attraversato grazie all’incontro col vescovo Ambrogio a Milano. La rievocazione personale diviene opportunità per ripercorrere anche le trasformazioni sociali, culturali, politiche, come paradigma di cambiamenti epocali. L’efficacia di tale approccio ha ora una conferma. L’arte musicale di Adriano Bassi e quella letteraria-drammaturgica di Simone Tansini si sono ritrovate in quel racconto, l’hanno amato e reso ancora più vissuto, essenziale, pregnante, contemporaneo esemplare grazie ad armonie e versi, recita e canto, suoni e stacchi di cui è sapientemente ed esteticamente intessuta la straordinaria pièce teatral musicale Ambrogio. Una luce da Milano.